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Mascherine, “Si importano quelle non a norma e le nostre si esportano”

Assositema Confindustria nella conferenza stampa di mercoledì 28 aprile ha messo in luce una contraddizione nelle modalità di approvvigionamento dei dpi, che dopo più di un anno dall'arrivo del virus in Italia continua a dare problemi

mascherina

Nel 2020 l’import di mascherine verso l’Italia è aumentato del 1.424%, raggiungendo un valore complessivo di 3 miliardi e 178 milioni di euro. Mascherine che nel 90% dei casi sono arrivate dalla Cina. Numeri impressionanti ma non inaspettati, vista la forte richiesta di dpi con l’arrivo del Coronavirus nel nostro paese. Il dato curioso riguarda invece l’export delle mascherine prodotte in Italia, che nello stesso periodo ha visto a sua volta un’impennata del 111%.

Una contraddizione che, come ha spiegato Assosistema Confindustria durante la conferenza stampa di mercoledì 28 aprile, mette in luce alcuni problemi importanti del sistema di approvvigionamento adottato. Durante il 2020 e i primi mesi del 2021 il mercato italiano è stato infatti inondato da dpi non in regola, mentre i prodotti a norma realizzati in Italia sono stati venduti ad altri paesi.

L’aumento dell’import e le “certificazioni in deroga”

Le cause principali di questa distorsione nel mercato delle mascherine sono due. La prima risale a marzo 2020, quando col decreto Cura Italia il Governo ha autorizzato l’immissione sul mercato europeo di prodotti provenienti da paesi extra-europei non idonei secondo le normative comunitarie. Allo stesso tempo, però, gli investimenti di Invitalia (l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, di proprietà del Ministero dell’Economia) hanno spinto le aziende italiane ad ampliare e riconvertire i propri impianti per aumentare la produzione di Dpi, questa volta nel rispetto delle normative.

Ma distanza di oltre un anno e nonostante la produzione in Italia sia ormai in moto, l’importazione di mascherine in deroga va avanti. Per questo motivo, in Italia (e soprattutto in ambito sanitario) si continuano a usare dispositivi di bassa qualità, mentre i prodotti realizzati in Italia e dotati di marchio CE sono esportati in altri paesi europei: in particolare Francia, Germania, UK, Svizzera e Spagna.

«Ci siamo confrontati – afferma Claudio Galbiati, presidente della sezione safety di Assosistema Confindustria – con la struttura del commissario straordinario Figliuolo e con il Mise e abbiamo chiesto di bloccare al più presto l’importazione di prodotti con certificazione in deroga, che inquinano il mercato, creano problematiche di qualità e un’allineamento eccessivo dei prezzi verso il basso. Serve inoltre una pianificazione precisa da parte dello Stato, che stabilisca quale sia la reale richiesta di mascherine e predisponga delle scorte strategiche, così da evitare di ricorrere all’import in deroga anche in futuro»

«Dopo l’estate 2020 – spiega Matteo Nevi, segretario generale di Assosistema Confindustria -, la richiesta di mascherine si è ridotta, ma si è continuato a importare. Questo non perché mancasse la disponibilità in Italia, ma perché acquistare dpi con certificazioni in deroga è più vantaggioso a causa dei costi molto contenuti. Ci troviamo così con quantitativi abnormi di dpi ammassati non si sa bene come e dove. Sorgono quindi dubbi anche su quanti di questi prodotti dopo tutto questo tempo siano ancora utilizzabili. Bisognerebbe realizzare uno stock di magazzino dinamico, in costante aggiornamento, con prodotti rinnovati regolarmente».

E gli altri dispositivi di protezione?

Per quanto riguarda invece guanti e indumenti protettivi (tute, camici impermeabili e camici chirurgici), la situazione è diversa. Anche per questo tipo di prodotti le importazioni nel 2020 sono aumentate rispetto al 2019, per la precisione: l’import dei guanti ha visto un incremento del 62% (+500 milioni di euro), mentre quello per gli indumenti protettivi è stato del 127% (+595 milioni di euro). In questi due casi, però l’export è diminuito (per i guanti è calato del 6% rispetto al 2019, mentre per gli indumenti protettivi è sceso del 42%).

«Il problema emerso in questo caso – spiega Nevi – riguarda la scelta di indumenti prevalentemente usa e getta rispetto a quelli riutilizzabili. Lo smaltimento di questi prodotti ha quindi portato con sé alcune problematiche ambientali e un aumento dei costi per i contribuenti».

Alessandro Guglielmi
aleguglielmi97@gmail.com
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Pubblicato il 28 Aprile 2021
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