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Processo Mensa dei poveri. Ecco perchè Orrigoni è stato assolto e Lara Comi condannata

Durissime le parole nei confronti dell'eurodeputata condannata a 4 anni e 2 mesi in primo grado dai giudici di Milano: "Vorticoso giro di soldi". Il patron di Tigros "non era a conoscenza degli accordi tra Caianiello, Bilardo e Tonetti"

lara comi

Sono state depositate oggi, venerdì, le motivazioni del processo di primo grado noto alle cronache come Mensa dei Poveri che lo scorso 2 ottobre ha portato alla condanna eccellente di Lara Comi, eurodeputata saronnese di Forza Italia, a 4 anni e 2 mesi e all’assoluzione di Paolo Orrigoni, imprenditore varesino a capo della catena di supermercati Tigros, accusato di corruzione. Nello stesso procedimento erano state condannati molti imprenditori, politici tra Varese, Milano e Novara e professionisti e altrettanti erano stati assolti. Altri avevano scelto il patteggiamento (Caianiello, Bilardo, Petrone e altri) o il rito abbreviato.

Perchè è stato assolto Paolo Orrrigoni per il nuovo supermercato a Gallarate

Quella di Orrigoni-Tigros, sottolineano i giudici nelle motivazioni, è una delle vicende maggiormente approfondite nel corso dell’istruttoria dibattimentale. Emerge in modo pacifico la dazione di danaro (50 mila euro) da parte di Pier Tonetti a Bilardo e Caianiello mentre rimane oltremodo incerta la partecipazione di Paolo Orrigoni e che la vicenda non possa essere inquadrata nello schema giuridico della corruzione.

L’ex-assessore all’Urbanistica Alessandro Petrone (che ha patteggiato un reato che poi non sarebbe stato commesso, ndr), nel suo ruolo di assessore all’urbanistica, viene messo nella posizione del pubblico ufficiale corrotto ma resta piuttosto indeterminata l’utilità indebita che lo stesso avrebbe ricevuto dall’accordo corruttivo – scrivono i giudici della corte presieduta da Paolo Guidi, a capo della seconda sezione penale del Tribunale di Milano.
L’avanzamento di carriera politica che viene evidenziata come utilità della corruzione è solo una mera speranza che non appare come qualcosa di concreto nel capo d’imputazione. Petrone, inoltre, non viene mai messo a parte del presunto patto corruttivo necessario a fare in modo che si configuri la corruzione di pubblico ufficiale.

L’operazione sarebbe stata finalizzata ad un’operazione di sorveglianza, di monitoraggio, di lobby sul partito di maggioranza che avrebbe dovuto votare lo strumento urbanistico. In sostanza l’obiettivo era quello di accontentare Caianiello in quanto dominatore della politica pur non avendo alcun incarico pubblico.
Gli stessi atti posti in essere da Petrone non sembrano attinenti al cambio di destinazione d’uso che, tra l’altro, è emerso che non era necessario. L’unico interesse, condiviso sia dal proprietario dell’area Tonetti che da Orrigoni, era quello di cambiare gli oneri di urbanizzazione considerati eccessivi perchè l’affare andasse a buon fine per entrambi e l’interlocuzione avviata col sindaco di Gallarate Andrea Cassani sarebbe stata orientata proprio a quell’obiettivo.

Le dichiarazioni accusatorie di Tonetti, inoltre, sono state considerate inattendibili in quanto sono più orientate ad accusare l’imputato che se stesso, ritagliandosi il ruolo di mero esecutore quando invece era Tonetti quello che aveva più interesse a fare in modo che tutto filasse liscio (avrebbe ottenuto un guadagno stimato in circa 10 milioni di euro complessivi).

Non è credibile, inoltre, il fatto che Orrigoni dovesse passare da Tonetti per avere un contatto con Caianiello in quanto l’imprenditore e il politico avevano una conoscenza di lunga data corroborata da dialoghi su whatsapp in cui si scambiavano pareri e pensieri da almeno tre anni.

Infine i giudici sostengono che non si potesse neanche riqualificare il reato in traffico d’influenze in quanto non si sarebbe dovuto incentrare sull’allora assessore Petrone ma sulle figure più tecniche in gioco. Esclusa anche l’ipotesi di mediazione illecita per la mancanza di un atto contrario ai doveri d’ufficio

La corruzione di Zingale per il contratto dell’amica di Lara Comi con Afol

Per quanto riguarda la corruzione nella vicenda del contratto di consulenza ottenuto dall’avvocato Maria Teresa Bergamaschi da Afol i giudici ritengono pacifica la dazione di danaro concordata anche per tramite dell’eurodeputata Lara Comi che lo definì “un regalo di Natale” per l’allora direttore della struttura pubblica, Zingale. Nella motivazione viene messo in evidenza come sia Lara Comi che Maria Teresa Bergamaschi non siano state in grado di dare versioni credibili sui messaggi che si scambiavano e nei quali appariva possibile una “tangente” per l’allora direttore di Afol, molto amico di Caianiello. Diverse le affermazioni considerate “false” dalla corte da parte dell’eurodeputata di Forza Italia. Lo stesso Caianiello, in questa vicenda, non ha negato i contorni. Vero è, ritengono i giudici, che non vi è prova che i soldi siano stati effettivamente retrocessi da Bergamaschi a Zingale ma solo per i disaccordi che erano sorti sull’allungamento del contratto.

La truffa all’Unione Europea di Lara Comi

Per quanto riguarda, invece, la truffa all’Unione Europea per Lara Comi la corte fa una disamina della legislazione in merito ed espone quanto dichiarato dal teste Enrico Saia, assistente locale della Comi tra il 2014 e il 2017 che ha delineato un quadro ritenuto credibile di come si sarebbe svolta la truffa tramite il terzo erogatore. Il collaboratore – dicono i giudici – aveva un contratto di 40 ore settimanali ma ha spiegato come il suo ruolo era del tutto marginale, relegato solo a pochissime mansioni e retribuito poche centinaia di euro a fronte di rimborsi da oltre 3 mila euro al mese. Per il tribunale, dunque, l’erogazione degli stipendi che venivano attribuiti a Saia sarebbero finiti nelle tasche dell’eurodeputata e dei suoi famigliari e di un altro collaboratore (Gravina). Saia ha ammesso di essersi prestato al gioco.
Le spiegazioni fornite dalla Comi in aula vengono definite prive di riscontri e definisco il suo comportamento “pari a quello di un riciclatore o di un gestore di false fatturazioni con pacchi di soldi portati a mano”. Le sue dichiarazioni difensive vengono definite  supportate dal nulla e destituite della pur minima logica tanto più in relazione al fatto ce si trattava di attività svolta sulla base dei un contratto registrato. Incredibile, inoltre, che un’eurodeputata si prestasse a fare da spallone per una esigenza personale di un suo collaboratore.

Calcola la corte che tra il 2010 e il 2015 la Comi, oltre al suo stipendio da parlamentare, abbia incassato oltre 354 mila euro grazie al rapporto con la moglie di Bernieri. Un regime di illegalità – afferma ancora la corte – voluto dalla Comi e terminato con il cambio del terzo erogatore. Con l’arrivo del nuovo incaricato l’illegittimità cessa e, si legge nelle motivazioni, Comi non poteva non conoscere quali fossero le normative da seguire. Per questo reato, però, è intervenuta la prescrizione mentre è stata condannata per il periodo 2016-2017.

Successivamente (2016-2019) fu il collaboratore Gravina, insieme alla compagna, ad ottenere benefici dai fondi europei e non la Comi che però ottenne contratti e consulenze tramite il suo amico-collaboratore e altre società a lui collegate. Quest’ultimo infatti risultava avere un contratto con l’eurodeputata ma in realtà lavorava per un’altra società a tempo pieno. Questi elementi – sostengono i giudici – potrebbero configurare un ulteriore ipotesi di truffa in concorso nei confronti di Comi e Gravina. Un quadro, quello descritto, che non fa emergere mai una rottura tra i due e l’eurodeputata non denuncerà mai l’ingombrante collaboratore anche se in aula farà di tutto per renderlo come il deus ex-machina della truffa.

Orlando Mastrillo
orlando.mastrillo@varesenews.it
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Pubblicato il 19 Gennaio 2024
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