“Il coso” e noi. L’intelligenza artificiale secondo Luca Mari
Dal linguaggio al concetto di responsabilità, la riflessione del professore dell'università Liuc su cosa ci distingue dalle intelligenze artificiali e su come il loro uso interroga la nostra idea di umanità

«Lo chiamo il coso, così è chiaro che non lo considero una persona». Luca Mari, professore ordinario di Scienza della misurazione alla Scuola di ingegneria industriale dell’Università Cattaneo – Liuc di Castellanza, ha cominciato il suo intervento nell’incontro “L’intelligenza artificiale di Dostoevskij”, che si è tenuto allo Spazio Libero di Materia, da un nomignolo volutamente banale. Un incontro dal titolo identico a quello del suo libro pubblicato da Il Sole 24 ore, occasione per un confronto non tecnico, ma filosofico, psicologico, e umano.
Intervistato dalla giornalista Roberta Bertolini, Mari ha messo subito in chiaro il taglio della serata: niente approfondimenti sulle tecnologie emergenti o analisi funzionali degli algoritmi, ma riflessioni su ciò che l’AI, anzi “il coso”, fa a noi umani, alle nostre abitudini, alla nostra idea di umanità.
CAPIRE COSA STA ACCADENDO
«Parlare d’intelligenza artificiale in termini solo tecnologici – ha precisato Mari– non serve a capire davvero cosa sta accadendo. È un tema a metà strada tra le due culture: quella umanistica e quella scientifica».
Stare su quel ponte non è facile e non paga dal punto di vista accademico. Questo è il motivo per cui sono in pochi, e tra questi c’è anche Mari, a guardare “il coso” da quel ponte.
Il professore ha raccontato il suo personale percorso di avvicinamento all’AI. Non è uno specialista del settore in senso stretto – lo ha chiarito – ma ha sentito il bisogno di intervenire pubblicamente sul tema, negli ultimi anni, perché ritiene cruciale affrontarlo da una prospettiva diversa, perlomeno più ampia.

CHI SIMO NOI
La questione per Mari è chiara: le intelligenze artificiali ci costringono a chiederci chi siamo, non chi sono loro. Durante la serata, Mari ha anche effettuato un esperimento in diretta avviando dal suo smartphone una conversazione con ChatGPT tramite la modalità vocale. Una dimostrazione non tecnica, come ha tenuto a precisare, ma utile per mostrare cosa significa oggi trovarsi davanti a un’entità non umana che parla.
Già, il “Logos”, la parola, il verbo. Ciò che caratterizza l’essere umano. È questo il punto di rottura o il «salto antropologico», come lo chiama Mari, che l’intelligenza artificiale introduce.
«Non si tratta di una vera conversazione – ha detto il professore – perché non sappiamo se capisce, non sappiamo se ha intenzionalità. Ma è uno scambio verbale, e anche solo questo basta a porci domande importanti».
TURING AVEVA GIÀ CAPITO
In dialogo con Roberta Bertolini, Mari ha ripercorso alcuni riferimenti storici e filosofici. Da Cartesio, che nel Seicento si interrogava sulla possibilità che una macchina potesse parlare “a senso”, ad Ada Lovelace, considerata la madre del software, fino ad Alan Turing, il logico – matematico inglese che decriptò Enigma, la macchina usata dai nazisti per cifrare i messaggi, e permise agli alleati di sconfiggere i tedeschi nella seconda guerra mondiale. Fu Turing a introdurre il concetto di machine learning, cioè macchine che apprendono. Questo, secondo Mari, è un punto fondamentale : l’intelligenza artificiale di oggi non è più solo programmata, ma addestrata. «Questi cosi – ha spiegato – non sono più sistemi che seguono istruzioni codificate. Imparano, per esposizione, proprio come abbiamo imparato noi la nostra lingua madre. E questo cambia tutto».
LA SFIDA EDUCATIVA
Un cambiamento che comporta sfide educative e soprattutto etiche. “Se per noi adulti può sembrare un dettaglio – ha sottolineato Mari – per i ragazzi la distinzione tra ciò che è vivo e ciò che è artificiale non è più scontata. La loro identità si forma anche nel confronto con i cosi».
Da qui l’attenzione al ruolo della responsabilità. «Noi siamo diversi dalle macchine – ha continuato il professore – perché siamo vivi. Viviamo nel tempo, invecchiamo, siamo unici e non clonabili. È per questo che abbiamo sviluppato il concetto di responsabilità: per convivere, per vivere bene la nostra vita finita».
TUTTO DIPENDERÀ DA COME LA USIAMO
Uno dei nodi centrali è allora quello della formazione. Alla domanda se ChatGPT ci renderà più stupidi, Mari risponde che tutto dipende dall’uso che ne facciamo. «Se lo usiamo per esercitare la nostra competenza, migliorare le nostre relazioni, rafforzare la nostra autonomia, potrà essere uno strumento potente. Se invece lo usiamo per delegare ogni sforzo cognitivo, diventeremo dipendenti, fragili, e sì, forse anche più stupidi».
Secondo la teoria dell’autodeterminazione, che individua tre bisogni fondamentali per lo sviluppo umano: competenza, relazione, autonomia. «I chatbot possono interferire con tutti e tre questi bisogni. Possono rafforzarli, ma anche minarli. E dipende da come li usiamo. La posta in gioco è questa».
UN COMPAGNO DI LABORATORIO
Non sono mancati i riferimenti alla pratica didattica. «Ai docenti consiglio di far lavorare i ragazzi in gruppo con i cosi, non uno a uno. ChatGPT può essere un compagno di laboratorio, un interlocutore collettivo. Non deve diventare il compitista personale». Infine, un passaggio sull’etica dell’AI, intesa come responsabilità di chi la sviluppa. Mari cita le Model Spec di OpenAI, un documento che fornisce indicazioni su come addestrare i sistemi a rispondere in modo socialmente accettabile. «Sono istruzioni etiche, non solo tecniche. Perché oggi non basta più costruire una macchina. Dobbiamo chiederci: che cosa le stiamo insegnando?».
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