Mani d’acciaio, anime gentili: ritratti di una generazione che se ne va
E noi restiamo qui, forse un po’ più fragili senza di loro. Ma anche più consapevoli che il loro vero lascito sono i rapporti umani, il modo di prendersi cura del lavoro e delle persone

C’è una generazione che sta lasciando le nostre fabbriche e i nostri uffici, e non tornerà più. Non parlo solo di pensionamenti: parlo di un modo di intendere il lavoro, il tempo, le relazioni. E forse la vita stessa.
Sono uomini che hanno lavorato sempre nella stessa azienda, per più di quarant’anni. Una fedeltà che oggi sembra quasi un reperto da museo industriale, e che invece ha plasmato non solo i prodotti, ma anche la cultura quotidiana, i corridoi, le pause caffè fatte di battute leggere e di silenzi pieni di rispetto. Hanno attraversato fusioni, cambi di nome, globalizzazioni, ma sono rimasti lì, testimoni e garanti di un mestiere.
Me ne sono accorto ascoltando quattro storie, diverse ma unite da un filo sottile. Un filo fatto di precisione, di mani che hanno imparato la pazienza prima ancora della tecnologia. Mani d’uomo, cresciute in contesti che chiedevano disciplina, poco spazio ai sentimentalismi e molta sostanza. Mani che oggi salutano con un misto di orgoglio e malinconia.
C’è Franck, che ha iniziato davanti a uno schermo DOS con le linee verdi a scorrere e le prime macchine utensili da programmare. Era il 1982, e lui voleva vedere se davvero i pezzi si muovevano come li aveva immaginati. Dopo quarantun anni, resta con la stessa voglia di capire i meccanismi: restaura una Fiat 500, sogna già una Golf, va a Le Mans a respirare motori come altri vanno a messa. Dice che continuerà così, aggiungendo fotografia e pianoforte. La precisione, alla fine, è una forma di musica.
Poi c’è Nicolas, che, giovane, avrebbe potuto andare in montagna, la valigia era già pronta, ma accettò all’ultimo un posto in contabilità. «Bisogna fare le scelte giuste, anche se non sono le più facili», dice. Da allora non ha più smesso: prima conti, poi stipendi, sempre con la stessa calma. Una serenità che, raccontano, ha salvato più di un ufficio dal panico nei momenti di corsa. Un approccio quasi paterno, che ha dato sicurezza a molti.
Fabio invece viene da Forte dei Marmi, «dove avevo venti madri», dice ridendo, perché in paese tutti ti tenevano d’occhio. Quel senso di comunità se l’è portato in azienda. Ha traghettato il sapere tecnico dai disegni cartacei ai database globali, dai tecnigrafi alle piattaforme digitali. Ha visto quattro vite aziendali diverse e ogni volta ha fatto un passo avanti senza lasciare indietro nessuno. «Forse è anche il mio cognome che mi ha aiutato», scherzava. Amico non solo di nome.
E poi c’è il pensionando un po’ nostalgico, che porta le armi a casa come si portano i ricordi. Non per sparare, ma per sentirne il peso giusto, l’equilibrio, la responsabilità. È cresciuto in officina, quando gli optional si facevano a mano e i cataloghi col righello. Ha attraversato la trasformazione dei servizi, dei ricambi, dei sistemi digitali, sempre con lo stesso rispetto per il pezzo che funziona come deve. Oggi lascia, con un misto di orgoglio e malinconia, perché sa che quel mondo, fatto di telefonate dirette, strette di mano e fiducia personale, non tornerà.
Cosa li unisce? Non solo la precisione. Li unisce una certa idea dell’essere uomini al lavoro: la cura silenziosa, la capacità di stare al proprio posto senza clamori, l’orgoglio di aver contribuito a costruire qualcosa che resterà dopo di loro. Li unisce un tempo lungo, che ha visto crescere macchine, aziende e persone. E un pizzico di gratitudine: per i colleghi diventati amici, per le sfide affrontate insieme, per le occasioni colte anche quando la strada più facile era un’altra. Ora molti di loro se ne vanno verso altre montagne: una Fiat da finire, un nipote da far crescere, un gatto che decide le regole della casa. E noi restiamo qui, forse un po’ più fragili senza di loro. Ma anche più consapevoli che il vero lascito non sono le macchine che hanno programmato o i database che hanno migrato. Sono i rapporti umani, il modo di prendersi cura del lavoro e delle persone. E la speranza che chi viene dopo, uomini o donne che siano, non dimentichi che, in fondo, anche nell’industria più evoluta servono ancora mani d’acciaio e anime gentili.
“Tre liutai avevano fatto il loro lavoro per anni nello stesso isolato della piccola città di Cremona. Dopo anni di coesistenza pacifica, la bottega di Amati decise di mettere un cartello in vetrina che diceva: ‘Facciamo i migliori violini d’Italia.’ La bottega di Guarneri seguì subito l’esempio, e mise un cartello nella vetrina che diceva: ‘Facciamo i migliori violini del mondo.’ Alla fine, la famiglia Stradivari mise un cartello alla porta del negozio che diceva: ‘Facciamo i migliori violino dell’isolato’.”
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